RESPECT

RESPECT

Seconda Visione

In sala dal 10 al 16 FEBBRAIO 2022

La storia vera del viaggio di Aretha Franklin per trovare la sua voce, nel mezzo del turbolento panorama sociale e politico dell’America degli anni ’60.

Vita di Aretha Franklin, un talento incontenibile dalla vita difficile. L’infanzia, vissuta in compagnia di un padre-padrone, il reverendo C.L. Franklin, e con la madre come presenza effimera, reca traumi difficili da sanare. Anche quando Aretha conoscerà il successo come cantante soul, il passato tornerà spesso a farle visita, cercando di tarparle le ali.

Il genere cinematografico più fragile, quello che stenta maggiormente a uscire dalla gabbia degli stereotipi, è indubbiamente il biopic musicale. Nella produzione media hollywoodiana i toni sono costantemente esasperati, i punti più importanti della vita professionale e personale dell’artista segnano l’andamento narrativo e ne condizionano il ritmo e la parabola deve inevitabilmente seguire lo schema rivelazione-ascesa-successo-caduta-redenzione, con scene clou che segnano il passaggio da un segmento narrativo al successivo.

Il paradosso di questo processo è che un film che dovrebbe basare tutte le sue chance di gradimento sul lato emozionale, spingendo verso la commozione e la compartecipazione, finisce per risultare alieno a ogni empatia proprio in virtù della sua rigidità.

In Respect ad ogni telefonata corrisponde immancabilmente un evento scatenante – la morte di Martin Luther King, l’arresto di Angela Davis – e ad ogni proposta che comporta una possibile svolta nella carriera di Aretha segue l’opposizione di un antagonista, sia esso il padre o il compagno violento Ted White.

Le molestie subite e le ricadute di queste sull’esistenza di Aretha, a partire dai figli nati quando era minorenne, sono accennate e dimenticate, scegliendo di non affrontare il lato più scabroso e oscuro della vita dell’artista. Le crisi di Aretha sono sintetizzate con il prevalere di un generico “demone”, battezzato così dal padre e tenuto per buono come spiegazione di tutto quel che avverrà, dai litigi con i compagni di vita alla discesa verso l’alcolismo.

È inevitabile avvertire il sentore di industria cinematografica in azione, mentre sta per confezionare un prodotto di marketing più che un’opera con velleità artistiche. Niente o quasi riesce a staccarsi dalla rappresentazione di fiction per farsi carne, al contrario dell’effetto che le esibizioni live della vera Aretha erano solite ottenere.

Da questo punto di vista il parallelo tra Amazing Grace, il documentario di Sidney Pollack recentemente restaurato e portato alla luce sull’esibizione gospel del 1972, e la sua ricostruzione nel finale di Respect è impietoso: tanto suona vibrante e senza tempo il primo, tanto appare posticcia e televisiva la sua ricostruzione.

A rendere il film qualcosa più di una produzione simil-televisiva è essenzialmente la performance di Jennifer Hudson, talmente impressionante per vigore e dedizione da far dimenticare, a tratti, i difetti evidenti del lavoro di Liesl Tommy (Dolly Parton: Le corde del cuore). A differenza degli interpreti minori del cast, intrappolati da una stucchevole volontà di mimesi dei personaggi realmente esistiti (Martin Luther King, Dinah Washington), Hudson omaggia Aretha ma la rielabora in maniera personale, tanto nello stile vocale che nell’ancheggiare. Inutile cercare di imitare un’interprete impareggiabile, meglio raccontarne il sogno o il mito, attraverso una libera interpretazione dell’icona e del suo irreversibile impatto sull’immaginario collettivo. Hudson lo ha compreso, ma sembra l’unica in una produzione paralizzata sulla via più semplice tra quelle a disposizione.

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